STRATI MOBILI|recensione

Quali sono le caratteristiche dell’immagine elettronica e come può ridefinire lo spazio architettonico? Il volume STRATI MOBILI/Video contestuale nell’Arte e nell’Architettura di Alexandro Ladaga e Silvia Manteiga esplora il nuovo linguaggio della civiltà elettronica il cui strumento cardine è il video, vera e propria rivoluzione linguistica e tecnologica del nuovo secolo. Gli autori, fondatori del gruppo ELASTIC, intraprendono un viaggio che porta a ripercorrere le tappe fondamentali di questo nuovo mezzo quale filtro della realtà, confrontando man mano i vari esiti sulla società e sull’architettura.

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Alexandro LADAGA, Silvia MANTEIGA; “STRATI MOBILI/Video contestuale nell’Arte e nell’Architettura”; all’interno della collana “The IT Revolution in Architettura”, a cura di Antonino Saggio;  EDIL STAMPA, 2006

Le origini delle odierne installazioni artistiche possono trovarsi nelle sperimentazioni di Balla e Depero o nel fotodinamismo di Bragaglia, le cui ricerche mettono al centro il ricordo del movimento, più che il movimento in sé. Per i futuristi l’opera deve diventare un dispositivo che avvolge tutto, una macchina dell’immaginazione e della percezione che espande lo spazio dell’esperienza estetica in un coinvolgimento fisico dello spettatore. Il quadro non basta più è un anacronismo.

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Manifesto della cinematografia futurista,  Marinetti, Corra, Ginna, Balla, Chiti e Settimelli, 1916

Duchamp è una figura emblematica in tale contesto. Nel suo Anèmic Cinèma (1925/1926) anticipa non solo l’immagine simbolo dell’era elettronica, ma anche le tecniche tridimensionali e le forme autogenerate della computer art.

Cosa contraddistingue però un’immagine elettronica? Sicuramente uno spazio senza confini, fluido e dinamico, ma soprattutto elastico. Uno spazio costituito da strati che si sovrappongono, dove la profondità è una dimensione illusoria e lo spazio esterno si fonde con quello interno proprio nell’ultimo strato dei tanti layers che compongono l’immagine. Quest’ultima superficie subisce un processo di meta-video-morfosi, neologismo coniato dagli autori, ovvero una trasfigurazione nella sua capacità comunicativa.

Lo spazio video è lo spazio elastico per antonomasia, capace di penetrare qualsiasi superficie. 

La civiltà elettronica, che è costituita da queste immagini, è sicuramente immateriale, poiché può autogenerarsi, ma è soprattutto trasparente, poiché risiede nell’etere. È una civiltà che si basa sull’ipercomunicabilità, i cui modelli rivoluzionano nell’ambito del digitale.

Un esempio è costituito dai nuovi dispositivi digitali: delle vere e proprie protesi, che possono essere considerate un prolungamento e un’estensione del corpo umano.

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In tale contesto l’arte/architettura diventa un corpo espanso, esce fuori di sé e diventa performativa, diventa fabbrica elettronica, mediaLab: tutto l’edificio può diventare una superficie multimediale, un’interfaccia gigante che si trasforma in teatro.

Con il video è possibile costruire spazi metaforici, simulare nuovi mondi artificiali, ma anche analizzare il mondo da un punto di vista chirurgico. Si aprono nuove prospettive, si rende monumentale il quotidiano. In Amniotic City, l’intento degli autori era quello di enfatizzare una nuova idea di spazio pubblico, in cui delle membrane invisibili riescono al contempo ad isolare e a unire il cittadino della metropoli contemporanea.  In Observatory (2001) è il grande occhio  posto all’entrata del Museo di Valencia (MUVIM) ad osservare gli spettatori che lo visitano. In Human Highways, (2002) è il racconto di immagini in movimento su un marciapiede di New York.

Le  possibilità di meta-video-morfosi si intensificano, coinvolgendo attivamente artista e pubblico: le immagini digitali, gestibili come i layer possono esser combinate come un puzzle. Il processo di montaggio, ad esempio, e in particolare il compositing, genera un nuovo spazio, in cui la prospettiva è distorta e l’immagine può essere trasfigurata. Si può simulare una continuità virtuale, un’esperienza di spazi di profondità infinita.

Una tecnica interessante è il loop, uno spazio video che può dilatarsi all’infinito nella ciclicità del montaggio:

Quali sono i primi esiti concreti nel mondo dell’arte e dell’architettura? Del 1965 sono i primi esperimenti di videoarte di Nam June Paik, il primo ad usare in modo creativo le telecamere e il videoregistratore portatile della SONY. Si stabilisce subito un’osmosi con la creazione di video installazioni dove i monitor diventano oggetti visivi e sonori, mescolati e messi a confronto con gli altri oggetti d’arte. In tal senso è interessante l’installazione di Bill Viola Bank Image Bank (1972).
Il linguaggio digitale trasforma l’architettura, amplificandola, e ciò è possibile perché l’immagine elettronica possiede una libertà spaziale illimitata. Sotto quest’ottica si trasforma anche il tessuto culturale urbano, che diviene una mediapoli.
Il dispositivo tecnologico trasforma anche il paesaggio, protagonista della Land Art: in questi casi monitor e schermi di proiezione propongono frammenti di spazio di grandi dimensioni, che sono contestualizzati nella loro riproduzione di paesaggio artificiale.
Alla fine degli anni ’60 si sente la necessità di rompere la visione unitaria offerta dagli spazi espositivi museali: nascono le installazioni site specific. Lo spettatore, muovendosi nello spazio dell’installazione, sperimenta spazialmente l’opera d’arte, un’opera che a seconda del contesto assume una differente scala. È un’arte autoriflessiva. Quando il site specific è su spazi pubblici esterni, diventa Public Art.

Quando l’opera d’arte non è più chiusa ma affronta lo spazio aperto e i luoghi pubblici, sorgono degli interrogativi: in che modo interagiscono gli artisti con lo spazio? Come sono visti e giudicati gli interventi in città? Può servire tutto ciò a cambiare il modo in cui la città vive? La città è ormai un oggetto indefinibile anche per architetti, urbanisti e geografi . In essa, come in un concetto di valigia, rientra un insieme complesso di luoghi, non luoghi, aree pedonali o dismesse, nuove e vecchie costruzioni, percorsi. La città è oggi il riflesso del nostro tempo, colossale e impraticabile.

La videoarte nella sua evoluzione dalle origini site-specific si è trasferita man mano all’aperto sconfinando con l’architettura e creando un nuovo tipo di Public Art che è divenuta via via più rilevante. Il contesto è cambiato, è diventato uno spazio mediato elettronicamente, la città è un Urban Landscape in progress che si modifica in tempo reale. Lo spazio Urbano è diventato un ricco campo di sperimentazioni visive.

Il libro si conclude con un’interessante rassegna di installatori, divisi in architetti e artisti, che costituisce un’ottima base per approfondire i vari autori che si sono  cimentati con il tema video.  Il libro è molto interessante e aiuta a fare “memoria” di un tipo di arte immateriale e trasparente, come l’etere in cui vive. Questo tipo di espediente visivo, quello del video e delle installazioni vive di momenti, la sua memoria sono gli spettatori, chi prende parte o si trova per caso lì. Questo, secondo me, sottolinea anche la precarietà dello stato umano, proprio per il suo essere labile e momentaneo.

Annalisa Farano

 

ELASTIC Group of Artistic Research è un gruppo di ricerca artistica fondato nel 1999 da Alexandro Ladoga e Silvia Manteiga. Le loro opere sono il frutto di un’attenta analisi sulla realtà circostante e sono contraddistinte da un’attenzione particolare sul rapporto che s’instaura fra il prodotto artistico e lo spettatore. Facendo proprio il motto di Duchamp “l’arte la fa il pubblico”, lo spettatore viene spesso coinvolto, anche in modo interattivo, in quelle che sono le video installazioni, così da trasformarsi a sua volta nell’opera d’arte cui prende parte.

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FONTI:

 

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